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Never say goodbye…
È una riflessione sul partire, sui motivi che spingono i singoli o intere collettività ad affrontare l’incognita del cambiamento.
Da sempre le persone si spostano: per sfuggire alla routine noiosa delle società opulente, per il piacere del viaggio di scoperta o nella speranza di migliorare il proprio tenore di vita, garantire alle proprie famiglie ed ai propri figli delle opportunità migliori, sfuggire alla povertà, alle persecuzioni, alla precarietà e alle guerre.
In tutte le culture il saluto precede ogni spostamento e, pur nella diversità linguistica, si palesa quasi sempre il desiderio del ritorno.
La differenza è sul come si affronta il viaggio: nella rassicurante comodità dei nostri aerei, treni, automobili o rischiando la vita asfissiati nei cassoni di un TIR, ammassati, calpestati e annegati nelle stive di una nave o detenuti, torturati e bruciati vivi in un centro di detenzione nel deserto…
La voce, asettica, artificiale e distaccata di un computer non è altro che la narrazione di un documento cartaceo: List of 34,361 documented deaths of refugees and migrants due to the restrictive policies of “Fortress Europe” (Documentation by UNITED as of 5 May 2018.)
Tutto per suscitare la consapevolezza su ciò che rimane degli oltre 34mila uomini, donne e bambini, che fino alla fine hanno sperato in un riscatto, è in quelle cinquantaquattro pagine.
Uno stillicido che non accenna a fermarsi.
“Ma quanto all’uomo, dichiaro di non averlo mai incontrato in tutta la mia vita”. Scriveva lo statista e diplomatico francese Joseph de Maistre. Cinismo che riflette una mentalità molto diffusa, quasi dominante. Quando si parla di un individuo, l’origine, l’appartenenza, la nazionalità vengono prima del suo far parte del genere umano. Creando così un artificio che trasforma la nascita in nazione, ponendo una barriera tra coloro che consideriamo “dei nostri” e gli altri.